- 1972 - 2011 Opere e progetti (libro)
- Mario Botta, Lugano
- Mario Botta, presentazione del libro
- Francisco Aires Mateus, Lisboa
- Fulvio Irace, Milano
- Tita Carloni, Rovio
- Luciana Caglio
- Alberto Caruso
commenti
-
2022
Valsangiacomo Pablo, Clinca di riabilitazione EOC, Novaggio - Terza tappa, p. 38 – 43, Archi 5/2022 -
2021
Novaggio, una clinica in costante rinnovamento, "Il Malcantone" N° 2- Febbraio 2021 – p. 3
Dossier Architettura per la scienza - Beobachten Messen Wissen , "K+A Kunst+Architektur in der Schweiz" N° 4 - Febbraio 2021 – p. 65
(Radar meteorologico Monte Lema) -
2019Concorsi Nuova sede DSU Lugano (2° premio) e Ristrutturazione edificio scolastico e nuova palestra, Vezia (4° premio), p. 78-79 in Archi 2/2019
Espazium – Competitions, 05.04.2019
https://competitions.espazium.ch/it/concorsi/decisi/ristrutturazione-edificio-scolastico-e-nuova-palestra-vezia
Restaurato ed elevato a Santuario (Vezio - Oratorio B.V. di Sassello), "Il Malcantone" N° 6 - Giugno 2019 – p. 3
Molteni Paola, L’architettura raddoppiata, Scuola Elementare Camorino, p. 110-115 in OfArch N° 149/2019
Camorino – Lustro internazionale per le scuole, "Corriere del Ticino" 30.07.2019 – p. 9
Meritato riconoscimento per un architetto malcantonese, "Il Malcantone" N° 9 - Settembre 2019 – p. 11
Le Scuole elementari di Camorino, un gioiello architettonico, "La Turrita" - Settembre 2019 – p. 78 -
2018Forti come l’acciaio trasparenti come il vetro, da 50 anni al vostro servizio – Maturi & Sampietro SA, p. 44, 46, MetallGlass 2017/18
(casa Mafferetti e CRN Pad. A)
Milan Stefano Crescere con coerenza, p. 16 – 20, Stadt aus Holz/Città in legno, Espazium N° 4 - Archi 6/2018 (Scuola Elementare Camorino) -
2016Monte Lema – Radar meteorologico, "COSTRUZIONI FEDERALI dal 1848"
Una casa per la prima infanzia, Scuola dell’Infanzia Arosio, Conversazioni al Parco 1 - I2a – istituto internazionale di architettura
Valsangiacomo Pablo, Vezio, in Strategien der Dorfentwicklung im Schweizerischen Alpenraum - Pragmatische Experimente, ETHZ / DARCH, pp.214/242
Camorino - La scuola cresce di un piano e diventa Minergie, "Corriere del Ticino" 16.09.2016
La scuola è cresciuta, "La Regione" 16.09.2016
Camorino ha 3 cerchi in più, "Giornale del Popolo" 19.09.2016
RSI – La1 - 15.09.2016 ore 19.00
Il Quotidiano – La nuova scuola di Camorino
http://www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/il-quotidiano/Il-Quotidiano-7955741.html
Clinica di Riabilitazione di Novaggio - Ristrutturazione e ampliamenti costruttivi 2007-2016, EOC Opuscolo
Cure - Novaggio, riabilitazione a cinque stelle, "Corriere del Ticino" 21.09.2016
La clinica ingrandita si presenta, "Giornale del Popolo" 21.09.2016
Teleticino - 23.09.2016 ore 18.45
Ticinonews - Porte aperte alla clinica di riabilitazione di Novaggio
http://www.teleticino.ch/video/servizi-tg/316039/porte-aperte-alla-clinica-di-riabilitazione-di-novaggio
RSI – La1 – 24.09.2016 ore 19.00
Il Quotidiano – Una clinica all’avanguardia
http://www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/il-quotidiano/Il-Quotidiano-7995932.html
Gaia Marco, Dalla Finlandia al Monte Lema, "Il Malcantone" N° 10 - Ottobre 2016 – p. 1/3
La Clinica di Novaggio: un aiuto a chi soffre, Il Malcantone N° 10 - Ottobre 2016 – p. 8
La clinica e il parco, connubio… salutare, "Rivista di Lugano" 07.10.2016 – p. 32
Caglio Luciana, Una clinica che racconta la sua e la nostra storia, "Azione" 19.12.2016 -
2015AASI Quaderno 03 Villa Gerosa, 1967-1971 (Arch. T. Carloni)
Scuola d’infanzia Arosio, pag. 49, "TICINO GUIDE" - sia archi (Verlag AG)
Clinica di riabilitazione EOC Novaggio, pag. 92, "TICINO GUIDE" - sia archi (Verlag AG) -
2014RSI – La1 - 21.03.2014 ore 19.00 Il Quotidiano – Passeggiate Urbane - Il Malcantone
www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/il-quotidiano/Il-Quotidiano-299448.html -
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-
2012Cappelletti Michelle L’innovazione valorizza il passato, in Ticino Management n° 8, agosto 2012, pag. 72-73
Caglio Luciana La disciplina creativa di Pietro Boschetti, in Azione, 10/2012
Brignoni Raffaella Quaranta anni d’architettura: l’opera di Pietro Boschetti si rivela, in 20 Minuti, 05.03.2012
Pietro Boschetti, quarant’anni di progetti , in Nuovo Almanacco 2012 Malcantone-Valli di Lugano-Collina d’Oro, pag. 87
Bergossi Riccardo Pietro Boschetti l’architetto condotto di Vezio , in Il nostro paese, N° 311 – p. 1
Papa Graziano Recensioni: Pietro Boschetti Opere e progetti 1971-2011, in Il nostro paese, N° 311 – p. 55
Quarant’anni di opere e progetti dell’arch. Pietro Boschetti raccolti in un volume, in Il Malcantone N°6, giugno 2012 – p. 6 -
2011Sobrie sintonie (rustico Caroggio), in Images- harmonies inverno 2010/2011, AnteprimaEdizioni
Abitazione e atelier a Vezio (casa Toffoletto e atelier/garage), in Archi 2/2011
“2.2. Le relazioni spazio-funzionali: analisi e schemi tipologici” (Scuola dell’Infanzia Arosio), in Progettare scuole sostenibili - Criteri e analisi delle sol, Edicom Edizioni
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Caglio Luciana, Quando si affronta un restauro non c’è una ricetta unica specialmente per i rustici destinati a diventare abitabili, “Corriere del Ticino”, 14.09.2000, p. 54 -
1999Rigamonti Adriana, Il monte, il bastione, la sfera..., “Terra Ticinese”, 4/99 agosto, pp. 37-41
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19982° premio - Concorso per un nuovo stabile amministrativo cantonale a Locarno, “archi”, no. 5/6, p. 53
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Borghi Ruggero, Esercizio armonico, “Ville e Giardini”, no. 5, pp. 26-33
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Loderer Benedick, Der Telegral, “Hochparterre”,no.10,p.7
Poretti Franco, Clinica militare federale a Novaggio, Uff. costruzioni federali, CC2 Lugano
Poretti Franco, Clinica Militare Federale Novaggio Risanamento e ampliamenti costruttivi 1989-1992, “Rivista Tecnica”, no. 12, pp. 14-27 -
1992Trümpy Ivo e Panzeri Attilio, Casa unifamiliare ad Ambrì, in BKS - Architettura e tecnica, Edizioni Salvioni, Bellinzona, p. 75 e p. 77
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1991Boschetti Pietro, z.B. Ticino Ristrutturazione a Lugano, “Archithese”, no. 2, pp. 56-57
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Boschetti Pietro, Semplicità e privilegiato rigore, “L’habitat”, no. 19, pp. 6-11
Boschetti Pietro, Riattamento ad Arosio 1990, “Rivista Tecnica”, no. 7/8, p. 2 -
1990Bellinelli Luca, Trasformazione di un rustico a Vezio e casa Boschetti-Riberi a Vezio 1989, “Rivista Tecnica”, no. 0, pp. 5-6
De Filippis Francesco, Recuperare la periferia, “Edilizia Ticinese”, no. 6, pp. 24-25 -
1989Winter Helmuth, Das Nuovo laboratorio Cozzi a Lamone, “Archithese”, no. 2, pp. 85-88
Bugatti Angelo, Lo spazio ricreato, in I libri di Ville e Giardini, Electa, Milano, pp. 18-23
Boschetti Pietro, Cinque ristrutturazioni a Vezio, “L’habitat”, no. 2, pp. 7-14
Fontana Ivan, L’architettura moderna nelle tre valli, “3 Valli”, n. 6, p. 11
Brown-Manrique Gerardo, Single-family house (Ambri), Middle school (Mezzovico) e Laboratory (Lamone), in The Ticino Guide, Princeton Architectural Press, New York, p. 16, p. 38, p. 43, pp. 64-65 e p. 78
Meyer-Bohe Walter, Wohnhaus in Ambrì, Tessin, “Baulücken”, p. 109 -
1988Savio Andrea, Un’architettura ritrovata, “Riabita”, no. 3, pp. 17-21
Negrini Claudio, Nuovo laboratorio 6814 Lamone, “A.S. Architecture suisse”, no. AII 12, pp. 82.7-82.10 -
1987Dechau Wilfried, Lücke im Tessin, “db Deutsche Bauzeitung”, no. 5, pp. 42-45
Terzi Anna, Un recupero eclettico, “Ville e Giardini”, no. 217, pp.18-23
Boschetti Pietro, Laboratorio a Lamone, “Rivista Tecnica”, no. 10, pp. 55-59 -
1986Boschetti Pietro, Casa unifamiliare ad Ambrì, “Archithese”, no. 2, pp. 83-86
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Terzi Anna, Post-vernacolare, “Ville e Giardini”, no. 206, pp. 12-17
Boga Thomas, Renovation eines Einfamilienhauses in Vezio e Einfamilienhaus in Ambrì, in Tessiner Architekten: Bauten und Entwürfe 1960 – 1985, Thomas Boga, Zürich, p. 125 e p. 134
Fumagalli Paolo e Panzeri Attilio, Casa unifamiliare ad Ambrì 1984, in BKS: Architettura in Ticino, Edizioni Salvioni, Bellinzona, pp. 32-33 -
1985Boschetti Pietro, Ricostruzione casa unifamiliare 6911 Vezio-Ticino, “A.S. Architecture Suisse”, no. AI 3, p. 65.17
Bugatti Angelo, Ridisegnare il passato recente, “Ville e Giardini”, no. 197, pp. 2-7
Boschetti Pietro, Ricostruzione ad Ambrì, “Rivista Tecnica”, no. 4, pp. 52-55
5° Premio - Concorso Croce Verde Lugano, “Rivista Tecnica”, no. 5, p. 62
Croce Verde Lugano, 5° Premio, “Archithese”, no. 2, p. 79 -
1984Boschetti Pietro, Ricostruzione a Vezio, “Rivista Tecnica”, no. 6, pp. 52-55
Boschetti Pietro, Riflessioni su una maniera di progettare, “Archithese”, no. 2, p. 71 -
1983Disch Peter, Scuole consortili a Mezzovico e Scuole a Camorino, in 50 anni d’architettura in Ticino 1930/1980, Quaderno della Rivista Tecnica della Svizzera Italiana, Edizioni Grassico Pubblicità, Bellinzona, p. 94 e p. 134
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1978Fumagalli Paolo, Scuola materna a Mezzovico-Vira, “Rivista Tecnica”, no. 7/8, pp. 33-35
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1976Boschetti Fonso e Pietro, Studio per i restauri della chiesa di S. Bartolomeo a Vezio, Edizioni Istampa, Agno
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1975Fumagalli Paolo, Falegnameria industriale a Mezzovico, “Rivista Tecnica”, no. 6, pp. 31-35
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1974Fumagalli Paolo, Trasformazione di una casa a Vezio, Malcantone, “Rivista Tecnica”, no. 2, pp. 45-47
Fumagalli Paolo, Scuole consortili di Mezzovico, “Rivista Tecnica”, no. 12, pp. 34-37
1971-2011 Opere e progetti
Tarmac publishing,
Mendrisio
consolidatosi lungo l’arco di oltre trent’anni e ben illustrato in questa pubblicazione, può essere suddiviso in tre distinte categorie di interventi architettonici. Quella dei singoli progetti all’interno del tessuto edilizio del villaggio di Vezio, nel Malcantone; quella degli interventi che nel corso degli anni hanno ampliato la clinica di riabilitazione a Novaggio e, infine, quella delle opere realizzate (dalle scuole, agli asili, alle abitazioni) nei dintorni dei villaggi del Canton Ticino.
Gli interventi all’interno del Comune di Vezio risultano esemplari per la modestia e la continuità con le quali l’architetto ha misurato il proprio intervento con le preesistenze, mostrando come, anche all’interno di una condizione ambientale degradata, sia possibile attraverso semplici progetti puntuali riscattare nuovi valori abitativi in grado di offrire una grande qualità per l’insieme degli spazi pubblici. È sorprendente constatare il risultato che scaturisce da questa sequenza di interventi, ognuno dei quali apparentemente rivolto a risolvere specifici problemi; in effetti è la morfologia dell’intero villaggio che trae grande profitto dalla progettazione precisa e corretta delle singole tipologie edilizie. Le prospettive, gli slarghi, le articolazioni e la viabilità ricuciono la varie parti del villaggio in una nuova visione d’insieme. La planimetria mostra un vero e proprio corpo urbano cresciuto nel tempo, dove le opere dell’architetto diventano segni di una nuova interpretazione, di una linfa benefica che riscopre le potenzialità del tessuto edilizio in precedenza smarrite.
Viene naturale pensare che questa “cura” attraverso puntuali interventi potrebbe venire estesa anche ad altri villaggi. L’idea di un “architetto condotto” in grado di gestire con sensibilità il destino dei singoli agglomerati potrebbe essere una soluzione “semplice” da contrapporre a quella complessa delle procedure in atto. Saper interpretare la logica delle vocazioni spaziali presenti nei tessuti edilizi vale mille volte di più degli schemi astratti e insipidi proposti dagli attuali piani “particolareggiati”.
Gli ampliamenti realizzati nella clinica di riabilitazione di Novaggio rispondono innanzitutto a programmi di riuso funzionale che la struttura sanitaria ha perseguito negli ultimi anni. Anche in questo caso i singoli interventi si rivolgono alle edilizie e al contesto del paesaggio integrando strutture e funzioni con un linguaggio contemporaneo chiaro e riconoscibile, costantemente teso a distinguere il nuovo dal vecchio grazie ad un dialogo-confronto fra le due componenti. Nonostante la complessità tecnico-sanitaria dei temi progettuali, che deve aver condizionato molte scelte, l’insieme riesce a configurare un “villaggio sanitario” di grande qualità architettonica nonostante le difficoltà di una complessa orografia.
Le nuove realizzazioni poste per lo più ai margini dei villaggi nel Canton Ticino, hanno come denominatore comune la capacità di stabilire una forte relazione con il territorio circostante. La situazione geografica difficile della maggior parte dei terreni destinati alle nuove costruzioni (con grandi dislivelli altimetrici e condizioni planimetriche ritagliate dentro spazi residui) si trasforma per l’architetto in una vera e propria opportunità compositiva. Il rapporto articolato con il suolo a volte scosceso viene, nella maggior parte dei casi, risolto dall’architetto con l’introduzione di uno “zoccolo” che stabilisce il nuovo piano di appoggio permettendo alle nuove strutture d’innalzarsi con geometrie autonome. Il linguaggio del Movimento Moderno fatto proprio da Boschetti ha il pregio, da un lato, di collegarsi ad una storia a noi vicina (post-Bauhaus) e, dall’altro, di prestarsi come strumento per un’autentica, nuova creatività. I manierismi che affliggono gran parte della cultura architettonica di questa nostra generazione vengono così abilmente evitati e l’uso “artigianale” di materiali naturali (pietra, calcestruzzo, ferro e legno) è adottato con grande sobrietà. Ma è soprattutto nel confronto fra le forme geometriche pure e razionali dei manufatti con le configurazioni organiche del paesaggio che Boschetti trova una felice capacità espressiva. Il paziente lavoro progettuale di riordino necessario per giungere all’essenzialità dell’impianto tipologico è alimentato da una saggezza che riaffiora sempre come espressione sincera del proprio tempo.
L’impegno progettuale di Pietro Boschetti consolida un atteggiamento diffuso fra i migliori architetti della sua generazione che, con caparbietà, hanno rivendicato l’impegno di testimoniare uno stretto legame fra l’opera costruita e il più ampio contesto del paesaggio, nella convinzione che solo un’autentica architettura possa concorrere a migliorare la qualità abitativa del territorio.
È nella ricerca di nuovi equilibri ambientali che risiede il senso stesso d’essere di un nuovo paesaggio, lontano dai mimetismi così cari a molti benpensanti o dai falsi storici che mascherano la propria presenza con scenografie nostalgiche.
Rivendicare, con misura e sensibilità, l’espressione di nuove forme costituisce la vera eredità delle avanguardie del XX secolo che Boschetti interpreta con grande sapienza compositiva.
Certo, poi diviene indispensabile (e qui ancora una volta Boschetti é esemplare) istaurare un legame con la storia e la memoria di un tessuto in grado di trasmettere la propria identità. Il confronto fra il nuovo e le preesistenze già consolidate dalla storia sfocia in un arricchimento reciproco che concorre a definire il paesaggio umano: le trasformazioni dell’architetto sono parte dell’identità del paesaggio. È attraverso questa consapevolezza che il progettista diviene anche testimone delle contraddizioni insite nel nostro tempo, che esigono nuove responsabilità all’interno di un impegno “locale” che si commisura ogni giorno con i problemi di un contesto “globale”. Leggere con lucidità il drammatico degrado del paesaggio che ci circonda, sempre più insensibile rispetto alle attese dell’uomo, diviene allora una parte essenziale del nostro impegno. L’architetto sa che l’edificio è parte di un organismo più vasto il territorio ed è all’interno di questa condizione che è chiamato a formulare risposte attraverso la propria creatività dove è possibile perseguire una reale corrispondenza fra ordine dello spirito e ordine del paesaggio.
Mario Botta
Ho accettato molto volentieri di festeggiare la presentazione del libro di Pietro Boschetti che raccoglie 40 anni della sua attività. Si tratta di un testo ben fatto, realizzato da Stefano Milan e Graziella Zannone.
Mi lega a Pietro Boschetti un rapporto di stima e di amicizia sincera e credo che sia un onore per l’Accademia di architettura vantare una serie di monografie che rendono giustizia al lavoro fatto sul nostro territorio. Sarà compito di Fulvio Irace parlare in modo esaustivo di Pietro Boschetti, mentre io voglio introdurre alcuni spunti di riflessione. Non si tratta di commenti critici ma di appunti di un operatore diretto che si confronta con il lavoro di un collega.
La dimensione artigianale
Il primo aspetto è la dimensione artigianale del suo lavoro. Pietro Boschetti è un architetto autodidatta che proviene da una famiglia di artigiani. Penso a suo fratello, il falegname Giovanni Boschetti, con il quale ho lavorato e continuo a lavorare. Credo quindi che proprio in famiglia abbia maturato l’attenzione verso l’uso dei materiali e la loro capacità espressiva. Nelle sue opere anche i materiali più umili come la pietra, il selciato, il legno, l’intonaco … trovano una loro dignità, una ragione d’essere che forse, oggi, si sta perdendo. Noi, purtroppo, siamo ormai abituati alle “vesti” magnifiche che camuffano le nuove architetture, nelle quali l’immagine mette in secondo piano la qualità della fruizione. Da lontano il fantasmagorico skyline di Manhattan, lascia a bocca aperta ma, man mano che ci si avvicina, quella tensione magica svanisce per lasciare posto alla banalità dei singoli elementi (l’isolato, una parte dell’edificio) in un luogo dove la differenza tra la cosa ben fatta e la cosa malfatta molto spesso si confonde. Al contrario, ho sempre avuto l’impressione che avvicinandosi ai lavori di Pietro Boschetti, si potesse ravvisare in essi un valore costruttivo e iconico che deriva proprio dalla loro capacità di “parlare”. Un po’ ciò che avviene di fronte ad un’opera antica: l’emozione di fronte al Battistero di Firenze è nettamente proporzionale alla nostra prossimità ad esso.
Il contesto
Il contesto è parte integrante dei lavori di Pietro Boschetti che, proprio per questo motivo, non possono essere considerati come a sé stanti. L’opera stabilisce una trama di rapporti spaziali con l’intorno, alimentandolo, arricchendolo e “dialogando” con esso. L’architettura diventa parte del contesto e stabilisce un rapporto di reprocità con esso. Credo sia una grande lezione perché in controtendenza rispetto a molte realizzazioni contemporanee, che risultano oggetti isolati e autoreferenziali.
Ricucitura urbana
Le architetture e l’intervento progettuale di Pietro Boschetti sono sempre un tentativo di ricucire un tessuto. Spesso si tratta di zone rurali nelle quali strutture ormai obsolete rinascono a nuova vita attraverso il dialogo con il contesto.
Disegno del vuoto
Un altro punto essenziale dell’opera di Pietro Boschetti è l’importanza del disegno degli spazi che si esplicita nella maggiore attenzione alla progettazione dei vuoti che non dei volumi costruiti. Per questo le sue architetture dialogano in maniera armonica con l’intorno.
I materiali
Pietro Boschetti usa materiali che si trovano nella storia del contesto nel quale opera senza mimesi o nostalgia, ma in maniera del tutto nuova. Da questo punto di vista ripenso a Carlo Scarpa e alla sua straordinaria capacità di far parlare i materiali, per cui anche una vecchia pietra, segnata o tagliata in un determinato modo, assume un nuovo linguaggio. Ritrovo in Pietro Boschetti la stessa attenzione e la volontà di donare una nuova forza espressiva a tutti i materiali attraverso il confronto, e quasi il contrasto, fra l’elemento preesistente, carico di una sua storia, e la nuova forma che vuole testimoniare in termini positivi del proprio tempo.
La dimensione etica del fare
Si può paragonare Pietro Boschetti ad un medico condotto. È un architetto che conosce, analizza e modifica il suo territorio con un sapere artigianale, il che, oggi, è raro nella nostra professione. L’idea dell’architetto “condotto”, che ha un suo territorio da seguire, tenere d’occhio e, quando possibile, migliorare anche attraverso piccole trasformazioni, ha permesso a Pietro Boschetti di far sì che delle condizioni obsolete, come ad esempio quelle di un villaggio semi abbandonato, rinascessero proprio attraverso al valore del fatto architettonico.
Questi sei motivi sono essenziali perché testimoniano del lavoro di Pietro Boschetti all’interno di questo nostro straordinario territorio che, da centinaia di anni, vanta numerosi architetti che hanno lavorato in tutto il mondo.
Mi ha fatto molto piacere sapere che la prossima monografia sarà quella dei fratelli Moro, altri costruttori di queste terre, che con grande semplicità e umiltà, hanno via via arricchito il loro repertorio espressivo e hanno lasciato dei segni positivi nel disordine in cui siamo costretti a vivere.
Grazie a Pietro Boschetti
Mario Botta
Agire in un luogo significa comprendere lo stretto legame tra territorio e tempo, tra costruzione e cultura, cogliere in ogni momento della storia il giusto equilibrio tra il vuoto e il costruito, tra la memoria e la produzione di una futura memoria.
L’asilo nido di Arosio si inserisce in un territorio che la contemporaneità ha occupato in modo disperso e senza una gerarchia chiara. Trattandosi di un asilo, racchiude nel suo programma un desiderio di affermazione di futuro, e assume di conseguenza la responsabilità di definirsi come segno fondativo nel territorio.
Pietro Boschetti ci propone un gesto primitivo di protezione: un recinto,unacopertura. Un riparo.
Gesto di ritorno alle origini e ai valori essenziali dell’architettura, si concentra su aspetti fondamentali rinnegando qualsiasi tentazione formale. Costituito da ambienti precisi e chiari e da una sezione di grande attenzione al luogo che permette di equilibrare la relazione interno/esterno fondendo gli spazi uno nell’altro con un uso minimo di elementi, il progetto afferma la sua volontà di sintesi: una casa, un recinto sicuro, un mondo completo. Questo segno quasi primordiale evoca tutta la storia dell’architettura e dell’uomo, sottraendosi all’arroganza del presente.
La serenità con cui la costruzione emerge, prolunga all’esterno il carattere poetico e l’atmosfera scolpita dalla luce del suo interno, alternando ombra e compattezza nei muri periferici con leggerezza e luce nel cortile, in una riflessione che si estende oltre l’edificio fino al recinto murario, anch’esso spazio architettonico.
L’esperienza è palpabile nella percezione materica dell’insieme. Un materiale definisce il gesto essenziale del progetto: il cemento armato, utilizzato con grande carica poetica, è letto quasi come pietra - la stessa di cui sono fatte le mura - rinforzando di nuovo il senso di recinto e di rifugio. Tale percezione ci induce all’idea romantica che il tempo sarà sempre indulgente con questa opera, rinforzando la sua condizione atemporale. Al limite, sopravvivrebbe la sua rovina.
Francisco Aires Mateus
Quando il 20 novembre 1975 si aprì all’ETH di Zurigo l’esposizione Tendenzen che per la prima volta , nel pieno della cultura internazionale, poneva la questione di un’identità locale dell’architettura offrendo un ritratto in esterni di almeno tre generazioni di architetti ticinesi, Piero Boschetti aveva avviato da quattro anni un’attività professionale come indipendente, nel suo studio di Lamone, in collaborazione con il fratello Fonso.
Il suo nome era ancora sconosciuto, sbiadito il suo profilo rispetto non solo ai maestri come Peppo Brivio, Tita Carloni, Aurelio Galfetti, Luigi Snozzi , etc. ma anche ai rappresentanti della nouvelle vague che di lì a poco avrebbero attirato sul Cantone l’attenzione della critica internazionale promuovendo addirittura la retorica di una Scuola Ticinese e sostanziando con le sue opere ipotesi come quelle del “regionalismo critico” con cui Kenneth Frampton proponeva di salvare il seme del Moderno trapiantandolo nei solchi di terra delle “piccole patrie”.
Risaliva infatti solo al 1972 il suo primo lavoro. Un duplice omaggio alle sue radici familiari e territoriali: la trasformazione della casa paterna nel comune natio di Vezio, primo di una lunga serie di interventi puntuali continuati sino ad oggi con l’appassionata dedizione di un ostinato romanzo di formazione, il cui primo capitolo era stato scritto sui tavoli da disegno dello studio luganese di Tita Carloni (che dal 1959 al 1961 aveva ospitato un altrettanto giovane Mario Botta) a sintesi di un tirocinio fondativo di quasi otto anni.
L’occasione era modesta, il luogo remoto: un’abitazione di tre piani ristrutturata con l’inserimento di una loggia aperta all’ultimo livello per offrire la vista della campagna sottostante. La dimensione intima dell’intervento escludeva ogni “eroismo” formale in omaggio a un’estetica della modestia intrinseca all’etica della comunità: l’approccio del progettista era in linea con una tradizione non scritta,ma proprio per questo fermamente perseguita, che considerava il territorio e il suo patrimonio costruito come un valore collettivo da incrementare nel solco di una continuità operativa aliena dalle fissazioni formali dell’architettura. Il tema dell’heritage vi si fondeva con la necessità (e la naturalezza) di un uso rispettoso: quasi si trattasse di un unico materiale fuso col paesaggio dell’uomo, e proprio per questo suscettibile di essere trasformato, lavorato, adeguato al cambiamento, al pari di un campo da arare, di un terreno da dissodare, di un argine da consolidare o da elevare. Più che regionale, era l’idea di un’architettura territoriale, completamente aderente alle pieghe di una geografia culturale oltre che fisica ed ambientale: un “approccio collettivistico”- è stato molto appropriatamente detto – “ che assimila lo spazio fisico a un’eredità comune o condivisa” (I).
Con le sue poche centinaia di abitanti, Vezio, nell’Alto Malcantone, è stato per più di un quarto di secolo, la rustica scacchiera dove Boschetti ha pazientemente disposto le sue pedine, rafforzandone la forma urbis con la sutura dei punti abrasi e con il metodo quasi omeopatico di agopunture delicate sui gangli nervosi più vitali. L’intero paese di Vezio doveva considerarsi come un’unità riconoscibile, ma non per questo immutabile nel tempo: anzi bisognosa di una manutenzione capace di agire come un’ interpretazione e al tempo stesso una riscrittura, in modo da prolungarne nel presente la sostanza civile senza stravolgerne i connotati ma anche senza pretesa di congelarne nel tempo la storicità.
Lo spiazzo del piccolo parco giochi, la ristrutturazione della casa parrocchiale, l’ampliamento del cimitero, la trasformazione in case e atelier di vecchie abitazioni, fienili e mulini - cui si sarebbero aggiunti negli anni 90 i progetti per nuove aree abitative e il disegno di un ulteriore tracciato stradale – stanno dunque a dimostrare non tanto l’ambizioso sogno di un’opera d’arte totale, o una riproposta in chiave rurale della lezione sittiana dell’”arte urbana”, quanto la spinta a organizzarsi e intervenire sul piano della gestione del territorio per preservarne lo spirito attraverso un progetto della modificazione dai caratteri quasi politici. Contro lo stravolgimento degli assetti tradizionali sostenuti dalla pressione della modernizzazione, si trattava allora, e ancor più si tratta oggi, di proporre una nozione di architettura come luogo della mediazione e come strumento di riparazione consapevole: di manifestare,insomma, il coraggio “ di affermare che alcune vecchie cose vanno bene, e che ci sono dei momenti nuovi con tante cose che bisogna avere il coraggio di imparare”(II).
Come il muratore loosiano che parla latino la figura del creatore si veste del camice da lavoro dell’operatore: qui non c’è uno stile da affermare per l’ambizione di lasciare un segno. O, per dirla con le parole di Alberto Caruso, “In Ticino gli architetti parlano in dialetto, ma dietro la semplicità del linguaggio di molti di loro si cela una conoscenza tecnica raffinata del dettaglio costruttivo e del suo disegno coerente con l’insieme dell’opera architettonica”(III).
L’opera di Boschetti in questi lunghi anni racconta i travagli e le conquiste di un lavorio continuo e metodico a partire da parole antiche riprese , come pietre di spoglio, dal loro lungo abbandono al suolo. Un modo di intervento che assimila l’ “architettura senza architetti” di Bernard Rudofsky a quell’”orgoglio della modestia” che Giuseppe Pagano, mutuandolo dalla critica d’arte di Lionello Venturi, aveva rivendicato negli anni 30 come il programma di un’autentica modernità razionalista. L’ego fa un passo indietro e si accorda al linguaggio del luogo, decidendo di volta in volta, in base alle singole opportunità, come e quanto intervenire.
Ciò spiega perché le sue prestazioni professionali comprendono l’intero abaco degli impegni previsti dall’arte del costruire: il riparare, il consolidare, il progettare. Ad Ambrì, piccolo villaggio della Leventina, Casa Prada è un limitato caso di sostituzione: una costruzione nuova nell’alveo dei ruderi di una vecchia cascina. L’accettazione del limite impone il programma e i suoi modi d’attuazione: accetta la forza preminente del contesto, recepito strutturalmente come svolgimento continuo di una legge storica di formazione di un tessuto compatto di abitazioni, di stalle, di cantine. La volumetria riprende il ritmo modulare del circostante, ma passato al vaglio di una essenziale geometrizzazione che si avvale dell’elemento ripetitivo dei mattoni in cemento BKS, che, assieme al disegno del “vuoto centrale lungo l’asse di simmetria del colmo del tetto, mostra l’assimilazione del carisma bottiano, ma anche una caratteristica del sistema architettonico ticinese che Alberto Caruso ha individuato nel suo alimentarsi di apporti internazionali e di ricerca tecnica avanzata e nella sua capacità di metabolizzare flussi europei di pensiero in prodotti culturali stabili(IV).
Non a caso, quindici anni dopo, nel 1999, la ristrutturazione del rustico Cantoni a Caroggio mostra una maggiore sicurezza nella forte evidenziazione del tetto in lamiera zincata (che enfatizza il ruolo autonomo della copertura), nella sobrietà degli infissi e nell’intervento di risistemazione della scarpata, con i servizi sotterranei e la piccola invenzione di nuova area abitativa all’aperto.
Ancora un intervento di sostituzione è, nel 2001, la Casa Marty a Fescoggia: qui però la tipologia è svincolata da quelle del ricorrente uso locale, per incentrarsi sul un grande patio sopraelevato e coperto (amplificazione del motivo a loggia della prima casa Boschetti) che fa da snodo tra gli ambienti domestici e il paesaggio. Il lessico familiare delle pareti a intonaco, del tetto a due falde, dei comignoli e delle gronde è recitato in maniera più sincopata nel taglio astratto delle aperture, nella nettezza dei profili metallici degli infissi, delle scale, degli aggetti interni. Decisamente più coraggioso il tentativo di Casa Maffaretti ad Arosio che rinuncia completamente ad ogni riproposta di grammatica ambientale, leggendo i principi dell’insediamento comunitario nella definizione logica della parcella, dei suoi raccordi con il tessuto viario, dei suoi usi urbani. In una condizione pesantemente segnata da incerte e maldestre trasformazioni, il progetto assume un valore ideale di riparazione e di omaggio all’unica traccia inalterata dell’antico: quella dei viottoli, dei vuoti, delle corti. La casa nasce infatti dal muro che segue il percorso in curva del vicolo e genera lo spazio aperto della corte, unica traccia della costruzione demolita: il muro a sua volta diventa zoccolo che contiene le tecnologie necessarie (rimessa, deposito, centrale elettrica,etc.). I benefici del cemento armato – assunto qui proprio in quell’ampia accezione che ha contribuito a definire la tradizione del moderno ticinese - si manifestano negli equilibrismi dei volumi a sbalzo: non gesti di puro compiacimento formale, però, ma idonei a sfruttare le ristrette condizioni topografiche, in aperta dissonanza con le parole di pietra dell’abitato.
La figura del muro come ordinatore dello spazio è ricorrente nella sua architettura e trova la sua più felice espressione nell’asilo infantile di Arosio, a pochi passi di Casa Maffaretti: l’elemento unitario del lungo nastro di cemento delimita lo spazio all’aperto per i giochi dei bambini segnando la linea d’orizzonte di un universo in miniatura oltre il quale si elevano confortanti le sagome delle case. Ma prosegue poi ininterrotto a formare la base del volume vero e proprio degli spazi educativi, proiettandosi in altezza e facendosi così da linea volume. La stessa logica governa il disegno della sezione, svolgendosi come una spirale che unifica con il suo svolgimento tre diverse quote, dai locali sottotterranei ai due livelli sopraterra.
A valutare il grado di crescita autoriale conquistato da Boschetti, il confronto tra questi interventi e due precedenti casi di ristrutturazione: quella della casa Castausio a Lugano (1989, sede anche dello studio d’architettura) e della Dogana di Ponte Tresa (1993). Nel primo caso, la trasformazione del costruito provoca l’integrazione di frammenti storici in un contesto profondamente modificato, ma non per questo riconoscibile come autentico. Una sostituzione insomma dell’immagine storica con un’immagine en style, una gentrification apparentemente timorosa di affermare quelle ragioni che l’hanno strutturalmente modificata negli spazi interni. Una operazione analoga alla Dogana di Ponte Tresa, dove l’aggiunta di un piano a loggia non costituisce occasione per una rimessa in gioco totale dell’idea di facciata in un edificio pubblico, ma anzi la cancellazione dei tratti preesistenti è seguita dalla iscrizione di nuovi segni che obbediscono a una visione stereotipata della logica formale dell’edificio in muratura.
Il mondo dove Boschetti si trova completamente a proprio agio è quello fuori dei riflettori della città, dentro le pieghe di un territorio che lo scrittore ticinese Andrea Fazioli ha descritto con successo nei suoi noir come il misterioso appartarsi di case e villaggi a pochi chilometri d’aria dalla vetrina metropolitana di Lugano. Un piccolo mondo antico che si dispiega passo dopo passo sotto il piedi, tra le strade di montagna, cascine di pietra lungo vette di alture incombenti sullo sfondo.
Analogo a quello di Vezio, il caso del centro riabilitazione di Novaggio, i cui primi interventi datano al 1990, anno di realizzazione del rifugio ospedaliero e dei parcheggi, seguito presto dalla piscina per fisioterapia, dalla ristrutturazione di alcuni padiglioni esistenti, dalla realizzazione dell’ascensore e del posteggio, fino al bocciodromo, alla centrale termica, alla rimessa, ai laboratori e alla sistemazione accurata delle generose aree verdi, con lo studio dei percorsi pedonali nel parco. Un lavoro che da più di vent’anni si protrae ancora in un immediato futuro, nelle linee di un piano che considera la cittadella della salute e del corpo in maniera analoga a quella del villaggio delle origini e dell’infanzia, Vezio. Anche qui un contesto e un tessuto costruttivo precedente era la base per un programma di adeguamento e di potenziamento che doveva tener conto della storicità del sito – un insediamento ottocentesco costituito da un albergo, da una villa padronale e da uno scenografico parco – , della particolare rilevanza di un terreno pittorescamente scosceso in una vertiginosa variazione di quote, delle strutture funzionali esistenti, risalenti al cambio di destinazione del complesso che nel 1925 venne acquistato dalla Confederazione Svizzera per insediarvi una clinica militare federale. Me è negli anni 80, che si creano le condizioni per un radicale ripensamento del centro.
L’occasione progettuale segna per Boschetti un salto di scala (e di committenza), ma non di mentalità. Nel 1980, l’iscrizione al Registro Federale degli architetti svizzeri regolarizza la condizione di autodidatta dell’architetto e coincide con l’apertura di uno studio a Lugano, progettato dall’autore stesso attraverso una radicale ristrutturazione di una preesistente palazzina. L’opera completa di un architetto è come la sezione del tronco di un albero: disposta nella sua cronologia rivela la sedimentazione possente di trent’anni di lavoro, e i segni della fasi di crescita mettono in luce i cambiamenti della meterologia culturale. Tra questi non può assolutamente sottovalutarsi la ricaduta dell’opinione critica internazionale che gioca un ruolo decisivo nel consolidarsi di un clima professionale con una struttura complessa che riposa più sulla condivisione comunitaria che sul format burocratico dell’associazionismo di categoria. Come ha osservato Roberto Masiero nel suo ritratto del Laboratorio Ticino, “il patrimonio comune non è dato da vuoti formalismi, ma da un modo di pensare il ruolo e la funzione dell’architetto, un modo che privilegia l’aspetto etico rispetto a quello estetico, basato col continuo confronto delle opere nella loro urgenza, nella loro necessità, nel loro contenuto di pensiero e nelle loro differenze. In altri termini, il caso Ticino riguarda non solo la capacità di alcuni di elaborare teorie o di diventare modelli, ma lo stesso tessuto professionale”(V).
Anche se le conseguenze ermeneutiche dell’esposizione mediatica dell’architettura ticinese nel ventennio 70/80 hanno prodotto la perniciosa sensazione di un ennesimo “ismo”, distogliendo paradossalmente l’attenzione alla paziente contestualizzazione delle opere nel momento stesso in cui le si dichiarava espressione del “regionalismo critico”, l’attenzione del mondo sul piccolo Cantone ha contribuito a rafforzare le pretese dei suoi architetti di volerne controllare o regolamentare lo sviluppo. Se dal punto di vista pubblico, queste aspirazioni hanno in fondo consentito la nascita dell’Accademia di Mendrisio, premiando la nascita di un polo alternativo alle tradizionali sedi di Zurigo, Ginevra e Losanna, dal punto di vista personale ha aperto a molti operatori la strada per una più facile considerazione del loro operato, quasi a dimostrare che la pianta ticinese fosse in grado di generare altri fiori e nuovi frutti, dopo le clamorose rivelazioni dei suoi padri e dei suoi maestri più conosciuti. Dopo le prime rilevazioni degli anni 70, la geografia ticinese ha messo in luce la sua struttura dendriforme. Più si fa fitto il setaccio della critica, più larga la mappa con l’emersione di un insospettabile numero di attori.
Di questa forza Piero Boschetti ha saputo valersi cogliendo il valore del momento storico e facendo pressione sulla sua architettura perché si confrontasse con temi, stilemi e linguaggi circolanti come venti di corrente o brezze momentanee sulla topografia professionale del Cantone. La riflessione sulla storia e sulla tradizione, l’uso ponderato (e anche simbolico) dei materiali – primo fra tutti il cemento armato, il beton, che in Svizzera è l'estremo riflesso della modernità fatta tradizione- , il significato monumentale dell’opera pubblica, quello normativo e paesaggistico della diffusissima committenza abitativa privata. Se fino agli anni 80, l’operosità di Boschetti ci parla di un’architettura cresciuta fuori dei contesti metropolitani, in enclaves territoriali apparentemente preservate come bolle d’aria nel cemento gommoso della globalizzazione, con il complesso federale di Novaggio lo inscrive in un albo particolare: i doveri verso un’identità pubblica implicano uno sguardo meno intimistico e soggettivo, l’adozione di un timbro che aspira a confrontarsi con la categoria del collettivo e con il ricco catalogo di soluzioni approntato dai suoi colleghi. Il linguaggio si fa icastico e trova nell’asciuttezza del cemento armato il conforto di un materiale rigido ma plasmabile, suscettibile di assecondare le minuzie di un disegno sostenuto da una sapiente cultura tecnica. Il primo edificio, il rifugio per la protezione civile, prende spunto dalla presenza del muro di contenimento presente nella morfologia del parco e l’adotta come punto di partenza e come punto di conclusione. Contiene il vuoto del rifugio e si allarga a formare una terrazza. Ma la topografia ne condiziona gli esiti, obbligando a considerare con sensibile attenzione la ferita inferta al suolo: allora il muro diventa bastione, assumendo il tipico profilo a scarpata e l’incisione dello scavo al suolo propone un disegno a punta per consentire lo svolgersi di due rampe di scala, ma soprattutto per evidenziare il meccanismo dell’incastro tra terra e artefatto. Ma è il recente ampliamento del padiglione B, posto sulla sommità del sito in una zona caratterizzata da una forte pendenza e dall’incombente vicinanza del limite boschivo ad esemplificare la disinvolta maturità raggiunta da Boschetti e il suo indubbio talento nel padroneggiare situazioni complesse, svolgere programmi di notevoli difficoltà funzionali e controllare l’impianto volumetrico immaginandolo come un completamento del luogo. Di particolare intensità la soluzione dell’angolo del lungo blocco superiore, dove la geometria dell’asse longitudinale collide con la direzione trasversale del viale d’accesso: difficoltà che viene brillantemente risolta con la creazione di un alto zoccolo dentro il quale sono stati ricavati le scale e gli spazi tecnici.
E’ una soluzione che ricorda lo smisurato basamento su cui poggia la stazione radar di Monte Lema, uno dei pezzi migliori della sua intera collezione: la relazione con la montagna e l’opportunità dell’incredibile vista stimolano la ricerca di una risposta che vada al di là della semplice funzionalità tecnica. La stazione può diventare meta di visitatori, stazione laica di belvedere per entrare in contatto con la natura: la sua destinazione viene sottratta all’esclusivo uso tecnico per dialogare con le esigenze della comunità e porre un forte tema di architettura.
Se a Monte Lema il basamento diventa sperone di roccia artificiale, a Novaggio dà origine a una una piattaforma da cui spicca il volume superiore, che nella sua visione d’angolo offre una suggestiva interpretazione del tema dello spazio comunitario esteso al ruolo di limite estremo della cittadella della salute. In tutti e due i casi si tratta dunque di un intervento chirurgico sul paesaggio, che ne completa ed esalta le peculiarità con le parole dell’artefatto. Inoltre, il perfetto controllo degli spazi delle degenze, aiutato anche dal disegno meticoloso dei dettagli costruttivi e delle attrezzature mobili, dimostra come persino le ristrettezze del budget possano risolversi attraverso una meditata selezione dei punti privilegiati di un progetto, mentre la perizia tecnica svela il lato etico del buon costruire come servizio alla comunità prima ancora che all’estetica dell’architetto.
La prolifica attività di Boschetti ci fa dunque toccare con mano una realtà deliberatamente dimenticata , anzi occultata da un sistema culturale incentrato sull’esclusivo predominio delle maschere del dramma e condizionato dall’altrettanto inevitabile dramma dell’autore. Un’architettura in prima persona, che anzi si identifica con la persona, con il corpo del suo attore, con le movenze dei suoi gesti, per definizione carismatici e risolutivi. Un’architettura percepita come rappresentazione, cioè messa in scena di un’azione avventurosa di colpi di scena, di gesti tanto straordinari quanto sorprendenti ed inattesi, dove l’eccezione risolve il gesto del costruire in un’offerta alla società dello spettacolo. Un’accezione che è diventata norma, aspettativa condivisa, paradossalmente prassi quotidiana, che mette in ombra – quasi si trattasse di altra cosa- la necessità di una diversa operosità: minuziosa, vigile, attenta, legata non all’astrazione geografica ma alla precisione materica e discreta dei luoghi. La carta e il territorio, insomma, come il titolo dell’ultimo, sorprendente, romanzo di Michel Houellebecq:da una parte la rappresentazione del mondo con la rete di geometrie astratte e quindi dal forte potere comunicativo; dall’altra la corrugata realtà del territorio, la precisione discreta e materica dei luoghi, la loro impareggiabile unicità. E’ una scelta che evidentemente non riguarda solo Pietro Boschetti, né può essere circoscritta all’enclave ticinese: la domanda pende sul futuro dell’architettura, sulla sua capacità di individuare strategie contro l’omologazione e in favore delle diversità, sulla sua tenuta di strada nel rivendicare una complessità del mestiere ben oltre l’affascinante ma troppo semplificata visione dell’architetto come form giver.
Fulvio Irace
(I) Stefano Azzolin,,Massimo Muttin, Ticino: architettura e territorio 1960-1995, in R.Masiero, a cura di, Architettura in Ticino, Skira, Milano 1999 , p. 28.
(II) Livio Vacchini, cit. in Ibidem, p. 28.
(III) A.Caruso, La resistenza della modernità, in G.Zannone Milan, a cura di, Costruzioni Federali. Architetture 1988-1999. Circondario 2, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2003, p. 13.
(IV) A.Caruso, La resistenza della modernità, ibidem.
(V) Cit. p. 7.
Siccome gli scritti degli architetti per finire si assomigliano un po’ tutti (e questo è normale e quasi inevitabile) cercherò di svolgere il mio compito prendendo le cose per un altro verso, sperando, tra l’altro di trovare un po’ di lettori al di là dei soliti sei o sette: l’autore, l’editore, il celebrato, alcuni vicini del celebrato e qualche curioso.
Comincerò dunque col raccontare la storia di un muratore di Vezio, di sua moglie Carmela e di uno dei suoi quatto figli.
Il muratore di Vezio lavorava a Zurigo, stimato per le sue capacità e per la sua operosità. Aveva sposato lassù una bella donna trentina, che poi si era portata a casa nell’alto villaggio del Malcantone. Lì il muratore aveva due sorelle arcigne (oltre a due fratelli preti) che mal sopportavano la bella cognata, laboriosa, forte e libera. Sicché era tutto un susseguirsi di imposizioni, di prediche, di angherie finché una notte la sposa coraggiosa prese il piccolo figlio in braccio e scese a piedi la Penodria, la strada tutta curve che da Arosio porta al piano, e prese il primo treno per l’alto Ticino.
Il piccolo figlio, dopo i primi anni passati alla culla San Marco di Bellinzona, trascorse l’infanzia, l’adolescenza e un pezzo di giovinezza tra i collegi di Faido, in Leventina, e di Locarno. Lì la disciplina era abbastanza dura ma giusta, le regole di vita rigorose.
Insomma s’imparava, come si diceva allora, a far giudizio.
Fu poi deciso che l’ultimo dei figli giunto all’età degli studi imparasse il commercio, considerato che i due fratelli maggiori erano diventati uno tecnico edile, più tardi architetto, e l’altro falegname.
In tal modo Pietro (così si chiamava il figlio del muratore) si preparò ad essere un diligente impiegato di commercio.
Ma la materia non lo interessava.
Già negli anni del collegio scappava a vedere le botteghe artigiane e i cantieri, ad annusare l’odore dei legni e del cemento, a tastare il peso e la durezza dei ferri.
Alla prima occasione, sotto i vent’anni, lasciò il commercio e volle diventare disegnatore d’architettura. Fu accolto nel mio studio, in anni ancora buoni. Fu apprendista capace, buon discepolo di alcuni compagni di lavoro sperimentati e più vecchi di lui, attento osservatore delle architetture del paese e di quanto si andava nuovamente costruendo. Era la fine degli anni ’60.
Poi cominciò a volare con le sue ali, tenace, furbo quel tanto che occorre per fare l’architetto, deciso a difendere il suo terreno come l’audace madre trentina (audaces fortuna iuvat) che era scesa di notte a piedi dalla Penodria per cambiare la propria vita e crescere in pace suo figlio.
Questa è in verità la storia di Pietro Boschetti. Se è vero, come dicono gli psicologi, che il nostro carattere si forma in gran parte negli anni dell’infanzia e della giovinezza, taluni aspetti del suo lavoro andrebbero indagati anche alla luce di quei fatti.
E allora proviamo a guardare un poco la sua attività attraverso questa lente.
Uno dei caratteri del suo lavoro è certamente la forte determinazione e la costanza nell’impegno professionale. Determinazione e costanza si acquisiscono con un buon allenamento sin da piccoli. Forse le vicende infantili hanno trasmesso una certa qual fermezza nel giovane professionista.
Un secondo aspetto è la disciplina, che nei collegi di un tempo veniva praticata in funzione di una futura vita ordinata e regolare. Nel nostro caso essa si ripresenterà nella forma di un esercizio professionale coerente e impegnato.
Un terzo aspetto è la capacità di osservare il mondo che ci sta attorno ed i cambiamenti che vi si svolgono.
Occorre dire che la capacità di osservazione, fondamentale per un architetto, dovrebbe essere accompagnata e sorretta da un robusto spirito critico che protegga dalle mode e dalle correnti d’aria del momento.
A questo proposito i primi lavori del Boschetti sono un po’ segnati, qua e là da qualche leggero belletto. Negli anni ’80 e ’90 i progetti non sono del tutto esenti da qualche marginale tentazione post- moderna (Casa P. Boschetti - interni – 1981; Casa Mercolli-Muschietti – 1987). Poi questa piccola vena scompare e negli anni ’90 appaiono forme vagamente post-razionaliste in progetti non realizzati per case d’appartamenti (Casa d’appartamenti Bertolini a Lugano -1998; Casa d’appartamenti Giacomini a Lopagno – 1996) e scuole (Scuola Media di Caslano - 1996). Dopo il 2000 il disegno sembra avvicinarsi alle più recenti correnti di certo minimalismo svizzero; con grandissime vetrate ad effetti plastici appariscenti (Villa a Lugano – 1999; Casa Sassi- Schoolkate a Ligornetto – 2003, Ampliamento di una villa a Lugano – 2004; Casa Mafferetti ad Arosio – 2005). Insomma (ed è un po’ così per tutti noi) certe tentazioni sono difficilmente resistibili, salvo nei casi nei quali committenze più sobrie pongono salutari paletti che costringono l’architetto entro limiti economici e formali rigorosi (Stazione radar - Monte Lema – 1993; Casa d’abitazione a Fescoggia – 2001; Scuola dell’infanzia ad Arosio – 2006).
Bisogna però anche aggiungere che buona parte del lavoro di Boschetti è percorso da un forte attaccamento al proprio paese, quasi una specie di nostalgia di un passato ormai irripetibile, con le sue pietre, i suoi legni, i suoi ferri, le sue forme appartenenti all’architettura popolare e rustica. Sono “ricordi” che chi è nato nel Ticino allo scadere della prima metà del secolo scorso, fosse anche soltanto all’ultimo momento, si porta dentro di sé fin da piccolissimo, come inconsce memorie di un mondo defunto che continua a lanciare forti messaggi.
I lavori di Pietro Boschetti nei nuclei di paese, specialmente a Vezio, testimoniano di questo rapporto che si manifesta con un forte impegno nei dettagli, nella buona costruzione, nei concetti statici corretti, nelle analogie formali esplicite: i vuoti neri dei solai e dei portici, i pieni massicci dei muri di pietra, la sobrietà delle aperture e dei relativi serramenti. La pietra, sempre del luogo, si accorda bene col legno, col ferro nella sua veste naturale, con cromatismi limitati che un tempo avremmo chiamati di carattere organico.
I risultati ottenuti in questo campo sono generalmente esemplari e potrebbero assumere un valore didattico nelle scuole degli architetti e negli uffici pubblici e privati che preparano i regolamenti edilizi per i vari paesi.
Sarebbero temi da approfondire.
Ma devo concludere e quindi quasi in forma di bilancio e di augurio dedico a Pietro il ritornello di una per me bellissima canzone di Georges Brassens:
Auprès de mon arbre
Je vivais heureux
J’aurais jamais dû m’éloigner d’ mon arbre Auprès de mon arbre
Je vivais heureux
J’aurais jamais dû le quitter des yeux
Tita Carloni,
luglio 2011
Architettura In una monografia quarant’anni di un percorso professionale attento al territorio e alla sua salute, spesso minacciata
«In Ticino gli architetti parlano spesso in dialetto»: ha scritto Alberto Caruso, direttore di «archi», la rivista ufficiale della SIA (Società svizzera ingegneri e architetti). L’osservazione non aveva nessun sottinteso ironico. Segnalando un’abitudine linguistica, definiva un tratto del comportamento comune a molti esponenti di una categoria professionale, per altro circondata da un prestigio persino internazionale: la vicinanza con la quotidianità locale. Insomma, uno spontaneo senso di appartenenza al proprio luogo che, tuttavia, non ha comportato chiusure culturali. Nel migliore dei casi, si è tradotto in una scommessa vincente: innestare le sollecitazioni del nuovo in un territorio particolarmente delicato, persino ostile.
Ci è riuscito Pietro Boschetti, che ama parlare in dialetto, si sente figlio del proprio paese ma anche del proprio tempo. E quindi avverte realisticamente esigenze di segno opposto: tutelare un prezioso patrimonio naturale e renderlo vivo e vivibile, cioè costruire, secondo criteri funzionali ed estetici attuali, lontani però da quelli di un’edilizia speculativa sempre più aggressiva. Con sensibile accortezza si è mosso fra conservazione e invenzione, fra locale e globale. Lasciando, in ambiti diversi pubblici e privati, tracce significative che meritano di essere osservate e valutate nel loro insieme alla stregua di un’opera d’autore. Ed è, appunto, l’obiettivo della monografia Pietro Boschetti 1971-2011 , a cura di Stefano Milan e Graziella Zannone Milan, fresca di stampa (edizioni Tarmac Publishing Mendrisio). Sarà presentata alla Biblioteca dell’Accademia di architettura di Mendrisio domani martedì 6 marzo alle 18.00.
Affidandosi, innanzi tutto alle immagini, indispensabili nei confronti di un’arte visiva, il volume racconta le tappe di un percorso professionale che rivela, subito, un chiaro filo conduttore: l’ininterrotta coerenza a scelte di fondo quali l’essenzialità, il senso dell’ordine e l’attenzione ai particolari. Ed è qualcosa che si ritrova, lungo i decenni, in tante forme. A partire dai primi lavori di ristrutturazione, degli anni 70 e 80, realizzati a Vezio, dove Pietro è nato e risiede, e che diventò una sorta di laboratorio di sperimentazione. Qui, infatti, l’architetto cercò di ridefinire un villaggio, anche dal profilo urbanistico, per restituirgli una vitalità vera: al riparo da tentazioni di ripristino nostalgico. Oggi i rustici non sono più fienili ma residenze secondarie o magari laboratori. Insomma, è sempre l’uso a definire l’edificio, ciò che per Boschetti non rappresenta una limitazione costrittiva. Anzi, sembra esprimersi al meglio quando affronta temi vincolanti: gli ampliamenti alla clinica di riabilitazione di Novaggio, la casa dell’infanzia di Arosio e soprattutto il radar sul Lema, suo amatissimo fiore all’occhiello. Proprio qui, l’interpretazione creativa ha potuto volare alto: trasformando un impianto tecnico in un bastione simbolico che segna il nostro orizzonte di montagne. Ma il rigore, che caratterizza anche le case e le ville, non è una scelta astratta, di tipo intellettuale, ispirata al minimalismo che va persino di moda. Certo anche Boschetti tende più a togliere che ad aggiungere. Tuttavia, le sue costruzioni danno sempre una sensazione di concretezza e di solidità, dovuta alla capacità di trattare i materiali, valorizzandone le proprietà naturali. Boschetti ama, visibilmente, il metallo, il legno, e soprattutto la pietra tanto da fare del muro un elemento chiave nei suoi progetti. Una predilezione che conferma l’appartenenza al suo territorio, espressa dall’opera e vissuta dall’uomo.
Quanto hanno contato, nell’evoluzione professionale di Boschetti, l’origine, l’ambiente familiare, le vicissitudini giovanili? Molto. Sostiene Tita Carloni, in un commento in cui ricorda Pietro apprendista, che aveva alle spalle l’esperienza dei collegi dove: «La disciplina era abbastanza dura, ma giusta, le regole di vita rigorose». Una lezione non disgiunta da un impegno morale, da cui deriva un senso di dovere verso la collettività. In proposito, Botta parla di «architetto condotto»: un medico che si prende cura della salute, oggi più che mai minacciata, dei nostri luoghi.
Questo stretto e fruttuoso rapporto con il territorio è balzato all’occhio anche di osservatori che vengono da fuori: il portoghese Francisco Aires Mateus e il milanese Fulvio Irace, entrambi docenti a Mendrisio. Nei loro testi introduttivi mettono in evidenza la costante preoccupazione, per Boschetti, di trovare un equilibrio fra «vuoto e costruito». Dal canto suo, Franco Poretti, già responsabile delle Costruzioni federali, II circondario, completa il volume con un minuzioso lavoro didascalico: le illustrazioni trovano il necessario supporto tecnico e cronologico. Questo è un libro: non solo da guardare, anche da leggere.
Luciana Caglio
Il libro pubblicato da Tarmac ha un apparato critico ricchissimo e mi sembra difficile in poco tempo aggiungervi altro materiale, se non affrontando il tema del lavoro di Pietro Boschetti in una chiave molto particolare, quella del mestiere. Da questo punto di vista, il suo lavoro è esemplare della figura professionale e della dimensione etica del lavoro dell’architetto ticinese della sua generazione.
Faccio risalire questa dimensione alle ragioni fondative della modernità ticinese, al “moderno in ritardo” che ha caratterizzato l’architettura di questa regione, nella quale il moderno è stata conosciuto e si è diffuso dopo la guerra, a differenza delle altre regioni europee, alla svizzera tedesca, a Milano ed a Como. Il ritardo ha comportato l’assunzione del linguaggio moderno in termini radicali, come una missione di rinnovamento e progresso civile. Pensate alle opere di Brivio e di Ponti, di Tami e poi alla lezione di Snozzi, che ha tradotto con i suoi aforismi i messaggi rivoluzionari di Tessenow, di Loos e di Le Corbusier. E’ stato un percorso che ha conferito al mestiere una dimensione morale prima che estetica. Al centro c’era la necessità dell’architettura e la sua funzione sociale, e una diffusa cultura tecnica era il terreno comune, questo sì radicato nell’antica tradizione artigianale locale. La “scuola tecnica”, oggi SUPSI, è stato il luogo importante della formazione di più generazioni di architetti e le istanze associative come la SIA, che, unico caso in Europa, riunisce insieme architetti e ingegneri, sono state il luogo del confronto.
Il tessuto professionale di quegli anni è stato effettivamente un elemento propulsivo della modernizzazione della società ticinese. Il progetto era concepito per avere come finalità la soluzione di un problema sociale e la forma era solo l’esito finale di un percorso, non la sua premessa, né il traguardo perseguito. Era escluso quindi, come nel lavoro di Boschetti, ogni forma di protagonismo dell’architetto.
A Vezio, il paese del Malcantone dove vive, Boschetti ha realizzato quindici opere delle diciotto progettate. Quindici piccoli puntuali interventi che hanno modificato nel tempo la morfologia del villaggio, esercitando una cultura legata profondamente al luogo, ma libera da mimetismi.
L’effetto trasformativo è stato quasi sempre ottenuto valorizzando gli spazi pubblici, attraverso l’arretramento di una recinzione, l’estensione di un terrazzamento, piccole demolizioni e ricostruzioni mirate a riordinare il paesaggio alla scala del pedone. L’intervento complessivo, ancora in corso, si può definire anche come un processo di manutenzione straordinaria permanente. Mario Botta ha giustamente parlato, a proposito del lavoro di Boschetti, di “architetto condotto”, come lo è, in altri contesti, Giorgio Guscetti a Quinto o come Wespi e De Meuron nel Gambarogno.
Di fatto, Vezio è stato il Politecnico di Boschetti, la sua scuola tecnica e culturale. E’ qui che ha acquisito sul campo la sua qualità principale, quella del “restauratore” del paesaggio costruito. Il restauratore ha prima di tutto la capacità di selezionare, di analizzare e distinguere ciò che va bene, e va quindi conservato, da ciò che deve essere trasformato, e in che misura lo deve essere perché l’insieme torni ad essere efficiente e significativo in quel determinato contesto. Vittorio Gregotti sostiene che tutti i progetti sono progetti di restauro, perché in qualche misura modificano un assetto preesistente. Nel caso di Boschetti, l’attitudine e la passione per la trasformazione dell’esistente lo differenzia dalla maggior parte degli architetti della sua generazione, che invece considerano un mestiere di seconda classe il lavoro di trasformazione rispetto al progetto del nuovo. Questa convinzione “modernista”, di rinuncia ad occuparsi dell’esistente, è un’altra eredità del progetto moderno assunto nel dopoguerra in modo radicale, cui sopra accennavo.
La forza espressiva dell’architettura di Boschetti viene da qui, dalla “scuola” di Vezio. Il continuo aggiornamento della disciplina tecnica, esercitata in una vasta casistica di condizioni contestuali tutte difficili, hanno contribuito a formare la sapienza del mestiere, il suo spessore culturale.
Negli anni ’90 del secolo scorso è iniziato un altro lungo e continuo esercizio formativo: i progetti per il rinnovo della clinica di Novaggio, una clinica originariamente militare, diventata oggi un efficiente e moderno centro pubblico di riabilitazione, distribuito in diversi padiglioni in un grande parco sulla montagna del Malcantone. Qui Boschetti si è esercitato nella disciplina della complessità tecnica. Edifici dotati di raffinata tecnologia, complesse questioni di gestione sanitaria, orografia problematica, tipologie molto differenti e rare, sono state le difficili condizioni, vissute come sfide e occasioni di ricerca dei modi e degli atteggiamenti progettuali, che avrebbero poi caratterizzato tutto il suo lavoro.
Gli edifici di Boschetti hanno sempre una forte relazione con il terreno, e sono caratterizzati da uno zoccolo importante, adeguato alla conformazione specifica del sito, che fonda l’edificio; sopra lo zoccolo, che realizza un nuovo piano artificiale, si libera la geometria progettata. In questo modo risolve l’incontro tra la forma geometrica che risponde alla migliore soluzione del problema distributivo e la forma organica offerta dal paesaggio preesistente.
Un altro, non secondario, aspetto del mestiere di Boschetti è quello della tenacia dell’uomo, della sua capacità di perseguire l’obiettivo con una straordinaria resistenza rispetto agli impedimenti e condizioni caratteristiche del lavoro progettuale, la capacità di forzare le condizioni senza rompere, e quindi senza compromettere l’esito del lavoro. Nelle sue relazioni con i committenti, la tensione al compromesso è gestita con abilità, in modo che il suo livello raggiunga la qualità massima possibile e contemporaneamente la condivisione rimanga elevata, in modo che l’opera non venga poi compromessa, come spesso avviene, successivamente alla consegna, perché subìta e non condivisa.
Uno dei progetti di maggiore rilievo degli ultimi anni è la scuola dell’infanzia di Arosio, aggiudicato in seguito ad un concorso. Un progetto di grande respiro culturale, che si distingue per le suggestioni colte ed i riferimenti alla più recente cultura europea, in particolare iberica. Il gesto primordiale di abitare il territorio, del tracciare un recinto e posare una copertura, costituisce la sua sintetica descrizione. Un alto muro di beton perimetra l’area da abitare, e diventa, per la sua posizione cruciale, un punto di riferimento territoriale, a dispetto delle leggende abusate sulle leggerezza o sulla trasparenza che dovrebbero riscattare l’architettura contemporanea. Boschetti conosce le ragioni profonde di come ci si insedia su queste montagne, di come l’architettura che rimane, quella che non viene cancellata dal tempo, deve essere fondata nel terreno. La sezione straordinaria di questo progetto, che risolve le diverse quote del contesto, dimostra poi la sua capacità di padroneggiare il tema.
Infine, mi pongo un quesito più generale sulla efficacia di questo modo di esercitare il mestiere rispetto alle nuove questioni che derivano dalle profonde trasformazioni delle condizioni territoriali che stiamo vivendo. La nuova dimensione della città diffusa, della scomparsa di molti villaggi nell’urbanizzazione frammentata e disordinata dei fondovalle, dove il modello dell’abitazione unifamiliare isolata si estende senza limiti, porta alla distruzione delle qualità peculiari del paesaggio ticinese, oltre che a costi finanziari e sociali enormi. I più giovani sono disorientati davanti all’imponenza del fenomeno, che comporta un cambio di dimensione del concetto tradizionale di contesto, per cui la topografia diventa geografia, e l’insegnamento scolastico non prepara a fronteggiare la nuova tendenza insediativa.
Bisogna che qualcosa cambi nella cultura degli architetti, che cresca una consapevolezza politica (nel senso della polis, non dell’appartenenza partitica) della nuova condizione. Boschetti è tra quelli che posseggono le qualità per affrontare la questione come una nuova sfida: la capacità di concepire il contesto come dimensione territoriale, il valore dello spazio pubblico come chiave per riscattare l’urbanizzazione diffusa, la capacità di padroneggiare le situazioni disciplinari complesse, del coordinamento interdisciplinare.
In questa prospettiva, il libro oggi presentato non è il suggello di una carriera, ma un bilancio provvisorio, un’occasione per riflettere e per intraprendere un nuovo inizio.
Alberto Caruso